Sig.ra I.C.
Sono I. la moglie di F., nel luglio del 1993 percorrevamo in auto una strada mai percorsa sino a quel momento, stavamo andando a comperare la pittura per tinteggiare la nostra nuova casa che ci sarebbe stata consegnata dall’impresa costruttrice proprio nel luglio.
Un camion uscito da una cava portava tra le ruote gemellari posteriori un sasso di due chilogrammi e mezzo.
Mentre il camion era in corsa e noi dietro di lui, la pietra si liberò e si scagliò come un proiettile sulla testa di mio marito che sedeva accanto a me che guidavo.
F. fu subito ricoverato in rianimazione neurochirurgica all’ospedale Cà Granda Niguarda di Milano dove lottò per la vita: tre interventi difficilissimi, un anno di degenza in ospedale, una lunga riabilitazione e le conclusioni cliniche: “Trauma cranico, sfondamento della base cranica con perdita dei lobi frontali”. I medici erano assolutamente pessimisti e d’accordo: pochissime se non assenti possibilità di vita e nel caso di sopravvivenza stato vegetativo”.
Come si può sopravvivere a tutto questo? Ci lasciavamo una vita alle spalle, solo da un anno sposati e con un futuro davanti a noi!
Una valanga di decisioni da prendere e per la prima volta lasciata sola a dover decidere della vita di due persone insieme.
Decisi di tenere la casa, di far arrivare i mobili che ci dovevano ancora essere consegnati e finalmente dopo un anno io e F. potemmo rinnovare la nostra casa con le ns cose perché io avevo deciso di tenerla chiusa aspettando il suo ritorno, rimanendo così fintanto lui non fosse stato dimesso.
In quei giorni in cui lui lottava per la vita in rianimazione non ho mai perso la speranza e tra me e me dicevo sempre che avrei voluto essere in quel momento catapultata nel futuro, almeno dieci anni dopo il 1993.
Ora sono passati più di dieci anni da allora e la voglia di vivere e di lottare sono rimaste in me immutate.
Posso adesso constatare che in quell’incidente sono morte due persone ma contemporaneamente ne sono nate altre due con un altro futuro ed un altro percorso di vita.
Quello che ero prima, una persona del tutto incosciente del vero valore della vita, una giovane che aveva studiato, aveva lavorato e che desiderava come tutti formarsi una famiglia con dei figli; mio marito avrebbe fatto rapida carriera grazie alle sue grandi capacità, ai suoi studi, essendo ingegnere non ci avrebbe fatto mancare nulla.
Non sono più quella persona ed oggi so che le cose più importanti sono la vita e trionfare la vita sulla sofferenza.
A tanti sembrerà ipocrisia o vigliaccheria sentirmi dire che non vorrei più tornare indietro e soprattutto che non vorrei più essere la persona di una volta. Infatti ritengo che ogni accadimento positivo o negativo nella nostra vita serva, inseni comunque qualcosa. Certo il cammino è stato doloroso e pieno di complicazioni.
La sofferenza che si vede provare a chi si ama è dura da sopportare e cambia totalmente. I primi tempi ero portata a fare il paragone con il passato, e pensare a me e F. a come eravamo, a come avremmo potuto diventare.
Ho capito che questa riflessione era sbagliata e portava solo alla sofferenza perché come si può fare un paragone con chi ha perso la vista, i lobi frontali e l’iniziativa?
Franco mi ha insegnato molto, mi ha insegnato ad accettare il suo stato e mi ha trasmesso la sua voglia di vivere incondizionata. Non si deve parlare di semplice assegnazione ma di accettazione della vita, perché la vita, secondo me, deve essere comunque vissuta con dignità.
E’ per quetso che non amo le persone che ci additano come un caso speciale e che vedono in mio marito solo un semplice anormale, un handicappato. Ma cos’è la normalità nella vita? E’ forse piangersi addosso,lamentarsi sempre o far vedere agli altri di non aver paura?
Io ho avuto tanta paura e continuo ad averne tanta ma nello stesso tempo so che sono soprattutto una persona coraggiosa proprio come mio marito e che la vita va comunque vissuta con dignità.
Spesso mi sento dire dagli altri: “ lui non può vivere senza di te”, si sbagliano del tutto, sono io che “non posso vivere senza di lui”.
La prima volta che F. è uscito la sera con i suoi colleghi della cooperativa ed io sono tornata a casa da sola dopo averlo accompagnato, sono stata male.
La nostra casa, la mia vita per quelle poche ore mi sono sembrate vuote, inutili. Nonostante ciò ho compreso che dovevo superare questo sentimento del tutto naturale di inadeguatezza derivante dal nostro rapporto simbiotico (d’altronde io e F. non siamo solo marito e moglie, ma madre e figlio, fratello e sorella, amico ed amica).
Noi tutti siamo ed ognuno di noi deve essere padrone di se stesso non dipendendo sempre dagli altri. E questo ragionamento vale sia per chi ha problemi e sia per chi non ne ha.
Vorrei ringraziare per avermi dato la possibilità di dire apertamente una realtà vissuta e da vivere quotidianamente senza non poca sofferenza.
G.B.
La nascita di nostro figlio era imminente.
Alla visita ci dissero che G. aveva un fibroma ma non era niente di preoccupante e dovevamo stare tranquilli; dopo il parto si sarebbe asportato. M., nostro figlio, aveva già un anno e mezzo. G. entrò in ospedale, venne operata e dimessa felicemente.
Dopo 10 giorni dal ritorno a casa, svegliandosi avvertì una leggera vertigine. Andai in cucina per prendere un po' di zucchero ma al ritorno la trovai con gli occhi sbarrati, immobile. Stentai qualche momento prima di rendermi conto della situazione. Il medico, al telefono, capì che era successo qualcosa di grave dal mio farfugliare. La voce non mi usciva.
G. lottò alcuni mesi contro la morte. Le portammo in sala di rianimazione delle cassette con voci e canzoni a noi care. Queste mi facevano ripercorrere mentalmente le tappe del nostro incontro: il fidanzamento, il nostro matrimonio, la nascita di M., tutti i momenti felici che ora mi davano tanta angoscia nel pensare che forse sarebbero rimasti solo un ricordo.
Poi G. cominciò finalmente ad uscire dal tunnel del coma; cominciò a rispondermi con gli occhi. Io ringraziai Dio e le promisi che qualunque conseguenza non ci avrebbe mai separati. Imparai un po' di tutto nei mesi trascorsi con lei in ospedale. Le davo da mangiare, le facevo da infermiere, da terapista ma soprattutto imparai ad amarla ancora di più. Da quel momento la mia vita cambiò radicalmente.
Ho superato molte difficoltà: la perdita del lavoro per poterla assistere, la ristrettezza economica, la paura di non riuscire nel mio intento. Ho lottato contro momenti di solitudine. Ho incontrato poi persone che mi hanno aiutato a superare questi ostacoli ma la forza più grande per continuare è G. stessa. Dopo sei anni riesce a reggere il tronco e con il braccio sinistro a scrivere, disegnare ed altre piccole cose. La vedo giocare con Marco sempre serena nonostante la quasi immobilità e capisco che la mia vita ha un senso.
Così lotta e speranza, continuano insieme come due linee parallele che forse un giorno si separeranno.
Sono passati altri 20 anni. G. motoriamente è rimasta la stessa però, grazie alla tecnologia, riesce a fare tantissime cose. Usa il computer per comunicare, per giocare, per navigare su internet con tutte le possibilità che questo offre. In casa è autonoma con la carrozzina elettrica, porte elettriche, vari pulsanti che le permettono di gestire la casa (luci, riscaldamento, ecc...).
M. ormai è un ragazzo molto responsabile che ci aiuta molto, ringraziandoci per ciò che gli abbiamo trasmesso con il nostro esempio.
Per quanto mi riguarda, posso dire che il segreto per portare avanti la nostra storia è aver capito che nessuna terapia o logopedia sarebbe servita se non avessi accettato che G. sarebbe stata diversa da com'era e che quindi saremmo dovuti ripartire da 0.
Ricostruendo insieme una vita comunque diversa ma piena d'Amore; quell'Amore che ci ha sempre unito e che volevamo portare avanti con tutta la nostra forza.
Grazie a G. e a M. per come sono.
Vi voglio bene.
G. R.
Quando mi è stato proposto di raccontarmi, ho avuto la tentazione di andare a rileggere il diario di quindici anni fa circa, quando annotavo giorno dopo giorno sensazioni, riflessioni, emozioni.. poi l’ho ritenuto inutile, non perché voglia cancellare il ricordo di quei giorni, di quei mesi ma perché io non sono più la stessa persona di allora.
Vorrei spiegarmi meglio, quelle sensazioni, emozioni, riflessioni rimangono dentro di me ancora oggi, sono mie ma ora assumono un altro significato.
Ricordo disperazione, a seguire rabbia e poi speranza.
La disperazione iniziale si trasforma in una paura sottile che ti accompagna sempre nel quotidiano, a volte sembra sparire ma basta pensare al futuro “dopo di noi” e arriva con una carica difficile da gestire.
La rabbia si trasforma in accettazione ma non rassegnazione, perché ti rendi conto che la vita è anche questa! S’impara, però, a progettarsi, a reinventarsi nei pensieri prima e nella pratica, poi. Forse sei più presente nella tua vita e in quella degli altri che hanno deciso di ruotare attorno a mia figlia G.
La speranza di un risveglio, fortunatamente avvenuto, è diventata la speranza di “un posto al sole” anche per G. e stiamo tutti lavorando in questa direzione, per prima lei.
Purtroppo però mi rendo conto che la mediocrità delle persone non cambia, anzi, può trasformarsi in vigliaccheria, o in falso buonismo.
Certo è lo specchio della società attuale, ma quando le persone mediocri sono vicine a G. è insopportabile e “ mi monta il nervoso”!
Sono persone convinte di averci “intortato” con le loro scuse banalissime, con le loro poche, finte, buone azioni. Parlo al plurale perché la loro mediocrità si allarga a tutta la mia famiglia, a mio figlio S. e a mio marito C.
Colgo l’occasione per affermare che non abbiamo creduto a una sola delle loro parole, anzi stiamo aspettando di vedere fino a che punto si spinge la loro spudoratezza, o meglio, vigliaccheria.
Le vigliaccate sono queste:
- Non ce la faccio a vedere G. così, soffro troppo
- Non ho tempo di passare a trovarti ma ti penso sempre e poi siamo amiche su Facebook
- Non possiamo frequentarci perché G, è a disagio (bisogna mettersi in gioco e non solo giocare a fare i grandi nella vita)
E così via!
Avrei la tentazione di fare i nomi di queste persone ma ho già dedicato loro troppe parole e se fossero a conoscenza di questo mio dire, fingerebbero di non riconoscersi: questo è il vero handicap!
Invece meritano di essere nominati quel che abbiamo trovato e ritrovato nel nostro nuovo percorso. Persone libere di pensiero, arricchenti, propositive, anche critiche e a volte severe ma disposte a stare con noi nel quotidiano e soprattutto a da accogliere G. non con pietismo ma prendendosi cura di lei nel modo giusto.
Un grazie speciale agli “artisti” del Centro, a mio fratello, alle mie nipoti e ad alcuni amici, pochi, ma buoni.
Volevo una vita carica di significato, ebbene, e sotto un certo aspetto, G. è motivo di significato e valore.